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Se il «marchio Italia» perde punti nell anno magico del turismo globale

Se il «marchio Italia» perde punti nell anno magico del turismo globale

Stavolta no, nessuno può attribuire tutto alla crisi mondiale, al crollo dei mercati, allo spostamento degli assi di certe produzioni industriali, all'emergere prepotente della Cina o dell'India. Niente alibi. Perché mai si erano visti, nella storia, tanti benestanti in vacanza quanti nel 2013. Sono stati, spiegava nei giorni scorsi Unwto-World Tourism Barometer, 1.087 milioni. Cioè oltre 52 milioni in più rispetto al 2012 quando, per la prima volta, il loro numero aveva superato di slancio il miliardo. Nel non lontanissimo 1980 erano 280 milioni: siamo al quadruplo. È la prova della bontà della tesi di Jeremy Rifkin: «L'espressione più potente e visibile della nuova economia dell'esperienza è il turismo globale: una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo».

Tesi confermata dalla Commissione europea: «Il turismo rappresenta la terza maggiore attività socioeconomica dell'Ue». E chi potrebbe sfruttare l'occasione meglio di noi? Abbiamo più siti Unesco (addirittura 49, e dovrebbero diventare 50 con le Langhe) di chiunque altro su tutto il pianeta. Siamo nelle posizioni di testa delle classifiche del «Country Brand Index 2012-2013» che ha studiato i «brand-Paese» di 118 nazioni accertando che il «marchio Italia» tra i potenziali consumatori è primo per il cibo, primo per attrazioni culturali e terzo per lo shopping, insomma primo nei sogni dei viaggi che i cittadini del mondo vorrebbero fare. Veniamo da una storia che nel 1979, come rivendicava il ministro del Turismo dell'epoca, Marcello di Falco, ci vedeva «secondi al mondo per attrezzatura ricettiva, primi per presenze estere, primi per incassi turistici, primi per saldo valutario».

Macché: spiega l'ultimo dossier Unwto, l'organizzazione mondiale per il turismo, che restiamo sì al quinto posto per numero di arrivi ma per fatturato siamo scivolati già al sesto posto dietro Macao e siamo ormai tallonati dalla Germania che dal 2008 ha dimezzato il distacco di 6 miliardi di dollari riducendolo a 3. Per non dire della classifica della competitività turistica (non basta avere la torre di Pisa, Pompei o l'Etna: devi offrire pure prezzi giusti, trasporti, organizzazione, sicurezza...), classifica che ci vede malinconicamente arrancare al 26o posto nel mondo e al 17o in Europa. Spiega il rapporto 2013 di World Travel & Tourism Council, mostrando tutti gli indicatori (sei su sei) con la freccetta verso il basso, che il turismo in senso stretto col quale troppi si riempiono a sproposito la bocca («il nostro petrolio!») contribuisce al Pil italiano con appena il 4,1% e cioè una quota inferiore a quella che vari Paesi occidentali ricavano già da Internet. Peggio: compreso l'indotto (per capirci: compresi i laboratori che sfornano croissant per le colazioni negli alberghi o le fabbrichette che fanno le divise dei camerieri) supera a malapena il 10,3%. Lontanissimo da quel 18,5% immaginato nel 2010 dal «Piano strategico per il turismo» della Confindustria di Emma Marcegaglia. E ancor più lontano dagli impegni di Silvio Berlusconi: «Ho dato come missione al ministro Brambilla di portare la quota di Pil del turismo dal 10 al 20%».

Non basta: senza una sterzata virtuosa gli economisti del Wttc prevedono che nei prossimi 10 anni solo nove Paesi su 181 monitorati cresceranno meno del nostro. La tabella a fianco sui pernottamenti, diffusa giorni fa da Eurostat, ribadisce tutto. L'Ungheria ha avuto nel 2013 un aumento del 5,0%, la Slovacchia del 5,5, la Bulgaria del 6,2, la Gran Bretagna (28 siti Unesco: poco più della metà dei nostri) del 6,5, la Lettonia del 7,3 e la Grecia, come dicevamo, addirittura dell'11 per cento. Oro zecchino, per le esauste casse di Atene. Certo, non siamo gli unici a essere andati male. Qualcosa hanno perso ad esempio anche il Belgio o la Danimarca. Ma nessuno su 28 Paesi, come dicevamo, è andato male come noi. Dalle tre cime di Lavaredo ai Faraglioni di Capri, dagli Uffizi al barocco di Noto, da San Gimignano ai trulli di Alberobello possiamo offrire più di tutti, sul pianeta. Eppure perdiamo 4,6 punti. Con un'emorragia, come denunciava giorni fa Assohotel, di 1.808 imprese alberghiere. Nell'«anno magico» del turismo mondiale. Colpa del crollo dei turisti interni, certo: gli italiani che possono permettersi una vacanza, purtroppo, sono sempre di meno. Tanto da pesare oggi, secondo una ricerca di Nomisma, meno degli stranieri. Come successe nel 1958. Proprio per questo, però, spiccano i ritardi culturali e tecnologici che rendono più difficile l'aggancio di quei turisti esteri che potrebbero aiutare le nostre finanze.

Spiega uno studio di Mm-One Group su dati Eurostat che nonostante i passi avanti degli ultimissimi anni, dovuti proprio al tentativo sempre più angosciato di recuperare clienti superando le pigrizie del passato quando troppi erano convinti che «comunque vada, qui devono venire», l'Italia è ancora nettamente indietro rispetto agli altri Paesi europei. Basti dire che il 30,1% degli alberghi, delle locande, dei bed & breakfast e insomma di tutte le attività ricettive non ha ancora una piattaforma dedicata alle ordinazioni. Che meno della metà e cioè il 46,7% vende online. Che mediamente i pernottamenti venduti sul web rappresentano solo il 12,5%. Uno su nove. Nel resto dell'Europa, la quota di fatturato derivante dall'e-commerce è del 24% ma diversi Paesi stanno molto sopra: la Gran Bretagna è al 39%, l'Islanda al 35, l'Irlanda al 33, la Repubblica Ceca al 31, la Lituania al 30, l'Olanda al 29... E mette malinconia vedere come noi, al 17%, siamo staccati dai nostri «concorrenti»: cinque punti sotto la Francia, sei sotto la Germania, dieci sotto la Spagna, ventidue sotto il Regno Unito.

Per questo resta stupefacente il silenzio che, salvo eccezioni, ha sempre accompagnato la diffusione di numeri sconfortanti come (fonte Wttc) la perdita di 4,3 miliardi di euro nel turismo straniero nel 2012 rispetto al 2006. Silenzio degli uomini di governo. Silenzio dei partiti. Silenzio dei sindacati, che sembrano non accorgersi di come il settore abbia sette volte più addetti della chimica o addirittura ventisette volte quelli della siderurgia primaria. Fu giusto, quando nacque il governo Letta, salutare come una svolta positiva l'accorpamento del ministero dei Beni culturali con quello del Turismo. Anzi, sarebbe stato bene aggiungere anche l'Ambiente. Proprio perché un ministro del nostro patrimonio dovrebbe poter pesare molto, in Consiglio dei ministri. Perfino il passaggio delle funzioni a Massimo Bray, però, si è rivelato un percorso complicatissimo. E la sterzata si è fatta sempre più urgente. - Fonte: Corriere della Sera (di Gian Antonio Stella)