Il Nepal allo stremo Viaggiatori in fuga, sherpa senza futuro
Fanno la coda giorni e giorni, bivaccano nei giardinetti dell'aeroporto pur di andarsene il prima possibile. Che ne sarà della nostra economia?», si lamentano sconsolati gli sherpa che accompagnano a valle i loro clienti.
Nell'intera regione di Kathmandu, tappa obbligatoria per tutti gli oltre 900.000 stranieri che ormai annualmente visitano il Nepal, la stragrande maggioranza delle strutture turistiche è chiusa. Nella capitale ieri qualche negozietto di mandala, pashmina e articoli da trekking aveva timidamente alzato le saracinesche, ma più che altro per facilitare ai proprietari la possibilità di rimettere sugli scaffali e nelle vetrine impolverate dai calcinacci la merce scaraventata a terra dai sussulti del terremoto. E sono mosche bianche, diciamo approssimativamente uno su trenta. Gli uffici che organizzano i tour in montagna sono sbarrati, come del resto gran parte dei lodge e dei ristoranti minori. Il conto del danno è presto fatto: il turismo rappresenta il dieci per cento della ricchezza del Paese, vi lavorano ufficialmente oltre 510.000 nepalesi (ma il dato reale è più alto). E i benestanti sono coloro che hanno a che vedere con i turisti. Basti pensare che un semplice portatore nei trekking può guadagnare 35 euro al giorno, una fortuna visto che il reddito pro capite giornaliero si aggira sui 6 euro. Ora tutto questo risulta fortemente pregiudicato.
«Una catastrofe. Ci vorranno un paio d'anni per rimetterci in sesto. Ma sino ad allora non resta che stringere la cinghia e resistere», afferma Anil Sapkota, noto operatore 38enne di Bhakhtapur, la città di mattoni rossi, legni pregiati, pagode e templi indù che ha uno dei centri storici più belli della regione. Arrivandoci sulla nuova superstrada dalla capitale si stenta a credere che possa essere tanto danneggiata. Qui gli edifici sono spesso rifatti, le strade pulite, il benessere indotto dal turismo è subito evidente. Ma, una volta superata la caratteristica piscina antica 300 anni di Guhya Pokhari tanto vasta e fonda da attirare i pescatori locali, le rovine di piazza Durbar fanno venire le lacrime agli occhi.
Non c'è palazzo che non sia colpito, se non distrutto del tutto in montagne di mattoni color ocra e spezzoni di legni intarsiati. A terra pezzi di intonaco con gli immancabili bassorilievi erotici dell'arte indù, gli elefanti di pietra, gli idoli che hanno fatto grande nei secoli la «città dei devoti». Una trentina di metri del «Palazzo dalle 55 Finestre» sono sbriciolati. Crollato su se stesso il tempio dedicato a Shiva. «Tutte le strutture più vecchie di mezzo secolo hanno subito danni», aggiunge Sapkota. Il quale però non si scoraggia: «In Oriente abbiamo viso catastrofi peggiori. Lo tsunami ha devastato le coste di Thailandia, Sri Lanka e Indonesia. Sembrava un colpo mortale per quelle economie. Pure, due anni dopo i turisti sono tornati più numerosi di prima».
Un'interpretazione più fatalistica arriva da Jamlin Norgay, figlio cinquantenne del celeberrimo Tenzing Norgay, lo sherpa che nel 1953 giunse sulla vetta dell'Everest con Sir Edmund Hillary. Ieri lo abbiamo incontrato per caso all'aeroporto di Kathmandu mentre attendeva di imbarcare per New Delhi dieci ragazze: una spedizione promossa dal governo indiano che, a causa del terremoto, si è dovuta interrompere a quattro giorni di marcia dal campo base dell'Everest. «Già mio padre pensava che gli uomini stessero violando i territori delle divinità che risiedono sul Tetto del Mondo. Ora la montagna si vendica», dice. L'altra sera lui e il figlio di Hillary, Peter, si sono visti a cena in un piccolo hotel del villaggio di Lukla per coordinare gli aiuti alle famiglie degli sherpa isolate da frane e slavine.
I figli dei due primi scalatori dell'Everest adesso vorrebbero salvarlo dall'assedio degli uomini, che a suon di banconote sognano di comprare la salita «facile» alla cima, ma nel contempo si preoccupano del benessere degli sherpa, che garantiscono questo obbiettivo. La missione sembra impossibile. Di L. C. - Fonte: Corriere della Sera
i finanziamenti chiesti dall'Onu a istituzioni e Paesi donatori per far fronte all'emergenza dei prossimi 3 mesi in Nepal