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Franceschini e il cortocircuito culturale italiano

Franceschini e il cortocircuito culturale italiano

29 Agosto 2014
giusta è ovvia e relativamente poco interessante: l epoca dello Stato Pantalone che finanzia tutto  senza se e senza ma (come va tanto di moda dire in qualsiasi contesto da un po di mesi) dovrebbe essere bella che finita, sia perché le tasche di Pantalone ormai contengono pochi centesimi e tanti buchi sia perché è stato proprio questo approccio strenuamente difeso tanto da finanziati che da finanziatori ad aver contribuito grandemente alla crisi dell economia italiana in genere e della cultura in particolare.

È altrettanto di palese buon senso l ipotesi di una  gestione mista pubblico privato per piccoli siti culturali che lo Stato non può gestire , affermazione oltretutto in linea con la più generale propensione mostrata dal ministro a favorire l intervento dei privati nel settore. La percezione che nessuno degli spunti del ministro ci farà però uscire dal pantano comincia a palesarsi con forza quando lo stesso fa notare come al momento  non c è nessuna struttura pubblica in grado di gestire questi servizi, non abbiamo competenze né strutture , ma ipotizza anche che in futuro si possa affidare un progetto ad una delle società pubbliche del ministero. È palese come il riferimento sia a bookshop, librerie, etc, con buona pace della Legge Ronchey.

Il cortocircuito è chiaro: anche volendo prescindere dalla discussione se sia più efficiente il pubblico o il privato, si manifesta l incapacità generale di andare oltre ciò che già c è, di elaborare un modello economico altro, con fonti di entrate alternative, attività diverse da quelle esistenti pur connesse con la cultura. Per questo motivo tutta l innovazione cui si riesce a pensare è entrare in concorrenza con i privati che gestiscono i servizi aggiuntivi e magari a farlo meglio; d altra parte l approccio italiano alla necessità di aumentare le entrate di un museo è di solito il banale rialzo del prezzo del biglietto (che è probabilmente una delle peggiori strategie ipotizzabili).

Franceschini ha ragione: la parte pubblica non deve essere necessariamente solo  costi , ma questo vuol dire soprattutto e quanto prima possibile pensare a servizi altri e diversi modelli economici per reinterpretare l esistente. D altra parte il difetto di mentalità, la scarsa propensione al nuovo trapela anche dall altra metà del discorso del ministro, questa volta in merito al diritto d autore: si insiste sulla necessità di tutelarlo, si parla di rialzi dei prezzi e di controlli, ma sembra assente la percezione profonda di come siamo ormai da tempo nell epoca dell accesso e non del possesso; eppure è lo stesso Franceschini ad ammettere che al download si preferisce lo streaming.

Il convivere di apparenti consapevolezze teoriche con la non coerenza delle iniziative conseguenti è d altra parte molto italiano e tipicamente politico. Anche sul ruolo di pubblico e privato si ripropone il dualismo che qui non è però prerogativa del Ministro, ma pigrizia diffusa a più vasto raggio. Francheschini afferma infatti di mirare a  raddoppiare la spesa per la cultura nella prossima legge di stabilità , che tradotto in cifre vuol dire che  nel 2015 gli basterebbe raddoppiare lo 0,10% attuale, avvicinarci almeno allo 0,24 della Francia , ma allo stesso tempo vuole un intervento maggiore dei privati in un numero più vario di modalità all interno degli spazi culturali. Se si avverassero entrambi i desideri si verificherebbe una movimentazione di investimenti finalmente importante verso i nostri attrattori culturali per rilanciarli, sia in chiave di protezione e valorizzazione, che in un ottica prettamente turistica. Probabilmente tuttavia non avverrà. Perché?

A parte le ovvie considerazioni relative alla difficoltà per lo Stato di allocare risorse su alcunché in questo momento storico, c è da considerare che con l attuale sistema di ripartizione dei fondi per la cultura ogni manciata di euro in più si disperde in modo irrazionale e poco impattante su una moltitudine di soggetti che include anche  non meritevoli e/o  non bisognosi . È un problema di scelte precedenti l elargizione, come detto già tante volte anche qui su Tafter; prima di dare soldi a qualcuno bisogna capire se ha fatto bene in passato, se ha progetti validi per il futuro, se è accountable, affidabile. Lo Stato e il sistema culturale su questo aspetto sono due passi indietro: non solo non lo fanno, ma si stanno ancora interrogando se convenga farlo, problema di opportunità politica e rapporti non certo di valutazione economica!

I privati, abituati a ragionare secondo un ottica di mercato e di investimenti per ragioni di sopravvivenza, sono invece profondamente coscienti della mancanza di accountability della cultura italiana; ma non è solo ciò che fa dubitare al momento che questi possano ritagliarsi a breve un ruolo importante nel settore. Paradossalmente il pesante ritardo di mentalità trapela non tanto dalle risposte del ministro, ma dalle domande poste dal giornalista di una testata importante come laRepubblica che chiede:  Vuole fare business con l arte? o  È stato criticato per il tentativo di coinvolgere i privati nella valorizzazione del patrimonio artistico. Finiremo con una Pompei che pubblicizza un paio di scarpe? . Neanche a noi piace il fatto che la  parte che costa sia pubblica e quella che rende privata , ci piacerebbe invece tanto l idea di qualcosa che funzionasse perché ha dietro un modello economico nuovo, ben ragionato e poi realizzato in buona fede e con competenza; almeno poi Stato e privati potrebbero discutere come ripartirsi i ricavi, non i costi. - Fonte: Tafter.it (di Marco Bernabè)