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Aeroporti più sicuri: il modello Tel Aviv. «Ma il rischio zero non esiste»

Aeroporti più sicuri: il modello Tel Aviv. «Ma il rischio zero non esiste»

01 Luglio 2016

Quando si parla di aeroporti sicuri, il modello da tutti citato è l'aeroporto di Tel Aviv, fino ad oggi considerato una case history di successo. Qui l'aeroporto è inteso come una fortezza, e non come uno shopping mall, e per accedervi bisogna passare attraverso una serie di cerchi difensivi affidati ad agenti in divisa e in borghese.

Non per nulla, per prendere un volo dal Ben Gurion, l'invito è di recarsi in loco almeno tre ore prima della partenza. E poi, nulla viene lasciato sguarnito: strada d’accesso, ingresso, check in, porte d’imbarco, navette, gli agenti in borghese sono dappertutto. In compenso, gli israeliani non controllano i liquidi dei viaggiatori, concentrandosi su una sorta di profiling, cercando di individuare i potenziali attentatori sulla base dei dati personali raccolti in vari modi.

Dall'intervista al check in all'osservazione del loro comportamento in aeroporto. Insomma, nell’aeroporto più sicuro del mondo nulla viene lasciato al caso. Una volta arrivati all'interno dello scalo, dopo aver già superato due livelli di controllo, prima del check in, decine di agenti sottopongono tutti i passeggeri a un intenso interrogatorio che alla fine porta all'assegnazione di un «indice di pericolosità».

Si va quindi al banco dell'accettazione con un’etichetta gialla sul retro del passaporto, contenente un codice a barre e una serie di dieci numeri. Quella che conta è la prima cifra che va da «1» - il passeggero non è considerato una minaccia - a «6», di solito attribuito ad arabo-israeliani, attivisti filo-palestinesi, visitatori con diverse nazionalità o origini da un paese musulmano. Dopo il check in, i percorsi si dividono, e i viaggiatori che hanno ricevuto il «5» e il «6» vengono sottoposti a ulteriori controlli. Chissà se adesso, dopo la strage di Istanbul, cambierà qualcosa anche in Europa.

Già all'indomani degli attentati di Bruxelles si era parlato di rafforzare i controlli in entrata negli aeroporti, almeno di quelli ritenuti più a rischio. Di fronte alla complessità e ai costi di rendere più sicure almeno le zone check in degli scali del vecchio continente, però, le autorità europee avevano preferito raccomandare agli Stati membri, seppure in modo non vincolante, di istituire un primo controllo di sicurezza subito all'entrata degli aeroporti, con metal detector per bagagli e persone, e relativo controllo di biglietto e passaporto.

Nel mondo, oltre all'aeroporto-modello di Tel Aviv, anche a Beirut si sono prese delle contromisure; o a Mosca, sia a Domodedovo che a Sheremetyevo, dove l'accesso al piano partenze è strettamente monitorato da polizia e metal detector. Nello stesso Jfk di New York, come in molti altri scali Usa, dopo le stragi dell'11 settembre la sicurezza è stata rafforzata tanto che nel principale aeroporto della Grande Mela si entra sotto sorveglianza di polizia e body scanner.

In Europa, invece, tranne rari casi, questi ultimi non sono ritenuti un investimento necessario su larga scala, se non per alcuni voli sensibili, ad esempio quelli verso gli Usa. Uniche eccezioni, a Vienna dove sono stati introdotti i controlli biometrici all'ingresso di tutto il personale o a Zurigo, da tempo considerato uno degli scali più sicuri ed efficienti d'Europa.

Il problema, fanno sapere da Bruxelles, è che il rischio zero non esiste. E quindi meglio procedere caso per caso. Un po' quello che è successo dopo lo sventato attacco della scorsa estate nel treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi, quando dopo aver valutato l'ipotesi di introdurre una serie di controlli di bagagli e identità nelle stazioni ferroviarie, i costi elevati e gli intralci alla circolazione avevano allontanato l'emanazione di disposizioni vincolanti da parte dell'Unione Europea.
 
«Solo adeguate misure di prevenzione da parte dell’intelligence potrebbero ridurre la probabilità di questi attentati terroristici e potrebbero garantire maggiore sicurezza negli aeroporti», ha ribadito Antonio Bordoni, docente di gestione delle compagnie aeree all'università Luiss, in un’intervista a La Stampa. E a pensarla così è anche Giulio De Carli, progettista di infrastrutture aeroportuali in tutto il mondo, e amministratore delegato di One Works, nonché di quel piano aeroporti italiano che non ha mai visto la luce.

«Gli aeroporti sono dei luoghi che rimangono sensibili ed esposti agli attentati. Dal punto di vista della sicurezza – afferma – sarebbero necessari molti investimenti, sia per aggiornare gli strumenti in uso, sia per installare apparecchi di nuova generazione. E ancora di più se si volesse configurare gli spazi aeroportuali in modo che sia fisicamente più facile effettuare i controlli. Per un kamikaze, poi, il fatto che un attacco avvenga prima o dopo l’ingresso in aeroporto cambia poco. La verità è che con questo tipo di attacchi azzerare il rischio è impossibile». - di Giorgio Maggi - Fonte: L'AgenziaDiViaggi.it